giovedì 18 giugno 2015

Itaca

C’è questa usanza in Giappone, quando si rompe un oggetto al quale si tiene non lo si butta, ma lo si aggiusta valorizzando la crepa riempiendo la spaccatura con dell’oro. I giapponesi credono che quando qualcosa ha subito una ferita, o ha una storia, diventa più bello.
Forse non è immediato, ma questa storia fa pensare agli oncogenitori. Precisamente ad una cosa che di tanto in tanto accade, non spesso in verità, ma che quando capita scuote quella crepa nel profondo. È  successo a Mammapapera, molti mesi dopo anche a Papàpapero, sarà capitato a molti, moltissimi altri… così, per caso. Sei a una fiera in giro per bancarelle, o al lavoro, incontri qualcuno che non vedevi da vent’anni, o semplicemente ti fermi a scambiare due chiacchiere con quell’impiegato che incontri di sfuggita tutti i giorni alla macchinetta del caffè, o al bar, in piscina, al parco, una mamma a scuola… e per caso ti trovi a parlare di te, così en passant “e poi mia figlia ha avuto un problema oncologico…” e a quel punto lo vedi, lo senti, lo percepisci con tutti i tuoi sensi. L’aria si elettrizza, come quando ci si toglie la maglia di lana e i capelli svolazzano sfrigolando… “anche mio figlio.. mia figlia…”
E allora è un riconoscersi, prima ancora che le sinapsi del cervello si attivino ecco che dal cuore parte un’eruzione verso la bocca dello stomaco che porta su un’onda anomala di parole ed emozioni che vorrebbe esplodere ma inciampa, incespica, balbetta e si ferma incerta sulla punta della lingua. Ed è tutto un tuffarsi occhi negli occhi alla ricerca di tutto quello che non si riesce a dire. Occhi che pian piano si annegano di lacrime che mischiano tutto il dolore passato alla gioia di un ritorno a casa, tra le braccia di chi ci ama, di chi, finalmente, può capire davvero, pienamente, completamente tutti quei non detti, quel non rispondere a domande  come “ ma adesso sta bene? È guarita?! (che non sono poi mai del tutto domande, ma tendono spesso all’affermazione), come quando Ulisse e Argo si guardano negli occhi dopo tutti quegli anni.
Quelle lacrime, in bilico sul filo sottile delle ciglia, si reggono in precario equilibrio per non precipitare su labbra dischiuse in sorrisi altrettanto vibranti. È un vento, un mulinello di foglie, la colomba che arriva col ramoscello d’ulivo dopo mesi e mesi di mare aperto, è precipitare nel vuoto per poi essere trattenuti e rimbalzati dall’elastico, è la mano che ti risolleva dopo che sei caduto.
E alla fine, da quelle bocche tremanti e incredule, escono brevi riassunti a due voci con parole ripetute e condivise “ settimo piano, protocollo, chemio, operazione, sterile uno due x…”. Razionalmente ti senti in un film di Woody Allen, emotivamente sei come in quel vecchio cartone degli anni’80, Galaxy Express… dove c’era questa viaggiatrice cosmica vestita come una zarina in fuga che viveva su questo treno interplanetario e ogni migliaia di anni incontrava qualche altro viaggiatore come lei.
È un’emozione fortissima. Non ti aspetti mai, mai e poi mai di incontrare per puro caso qualcuno che ha vissuto la tua stessa storia, che porta le tue stesse cicatrici. Non pensi mai che magari quel qualcuno si nasconde tra i compagni di scuola della classe del ‘96, o dietro una scrivania tre porte più là.  E poi accade. Semplicemente. E la vedi, la crepa d’oro. La vedi nell’altro che sta di fronte  a te. E sai che è il tuo specchio. Che anche tu hai quella crepa d’oro. Vorresti infilarci il dito, percorrela tutta, tracciarne il percorso in tutte le sue ruvide diramazione. Ma per pudore non lo fai. Stenti a farlo con la tua cicatrice.
I grumi, le scheggiature, le ruvidezze… sono intime e personali. Diverse da un individuo all’altro. Allora ti trattieni. Ti limiti a guardare, a sorridere tirando su col naso, con gli occhi che brillano di lacrime funambole. Mentre il cuore pompa e salta e corre corre corre corre sempre più forte, indiavolato come la locomotiva della canzone. A volte poi ci si scioglie in un abbraccio, a volte non serve, o non viene. E  si rimane lì, a scrutarsi ancora un po’, come per memorizzare quell' attimo, quel viso vagamente conosciuto che ora diventa famigliare, fraterno.

Poi però non si può rimanere ad Itaca per sempre. Bisogna risalire ognuno sul suo treno interplanetario e ripartire. Ci si saluta, e l’aria è ancora densa di quel tutto. Di condivisione, di alleanza, di legame segreto di sangue che non servirà mai più rivendicare, perché c’è, è rimane lì, eternamente scolpito in quella crepa d’oro.